giovedì 3 gennaio 2013

32. IL SENSO DELLA GUERRA SANTA



Il film ‘Women of Hezbollah’consente di riempire di significato pratico il termine Jihad[1].  Il documentario è stato girato nel 2000 dal libanese Maher Abi Samra. Il regista torna nel quartiere della sua giovinezza, Ramel el Ali, un sobborgo meridionale della città di Beirut, dove ha vissuto le contingenze drammatiche della Guerra Civile Libanese (1975-1990), ovvero la povertà, le precarie condizioni di vita, il desiderio di riscatto, presupposti  dell’ascesa politica di Hezbollah, il partito islamico di Dio, composto prevalentemente da integralisti islamici sciiti. Il film ha come protagoniste due attiviste, Zeinab e Khadjie; il regista, attraverso le loro testimonianze, rese attraverso la tecnica rievocativa dell’intervista, compie una ricognizione  delle motivazioni e degli aspetti personali, sociali e politici della militanza islamica. Le due donne rivivono dal loro punto di vista gli eventi che hanno caratterizzato la guerra civile in Libano e l’ascesa del partito islamico di Dio, espressione di jihad. Colpisce la fede di Zeinab, disposta con fierezza a perdere il marito nel caso si immolasse per l’Islam in un’azione suicida. Con analoga agghiacciante freddezza, Zeinab non solo accetta ma incoraggia i propri figli a farsi anch’essi  martiri. Da alcune sequenze che si alternano agli stralci delle interviste si evidenzia anche come i giovani libanesi vengano educati fin da piccoli all’odio nei confronti di Israele e dell’occidente. Khadjie, meno giovane di Zeinab, cresciuta nel sud del Libano, dominato dagli sciiti, dice che quando era giovane era a conoscenza dell’esistenza di due sole realtà religiose: quella musulmana e quella  ebraica. La comunità ebraica le veniva descritta in maniera oscura e terrificante. Quando piangeva, sua madre le diceva: "Stai attento, gli ebrei stanno venendo ad attaccarci!" Dopo un matrimonio imposto e fallito dal quale ebbe sei figli, Khadjie trovò una motivazione esistenziale nella passione per l’impegno politico. Khadjie fu la prima donna imprigionata dagli israeliani, e divenne rapidamente un simbolo della resistenza. Attraverso il vissuto delle due donne e gli stralci tratti dalla vita reale il film mostra cosa significhi in concreto essere  jihad. La condotta ed i sentimenti delle due donne indicano che essere strumento di jihad presuppone una disponibilità ad annullare se stessi ed una piena accettazione del  sacrificio di quanto si ha di più caro per la difesa o l’affermazione dell’Islam. A prescindere dalle sottili disquisizioni interpretative, la cieca fede per l’affermazione dell’Islam che anima parte dei fedeli musulmani  e che prescrive iniziative che qualsiasi sia il loro contenuto si impongono su altre opzioni di vita, è il jihad. Il film inoltre fornisce il modello femminile della militanza islamica. Viene  in mente l’affermazione di Khomeini circa l’apporto decisivo delle donne per l’affermazione della rivoluzione iraniana. ROBERTO RAPACCINI





[1]  Per analogia con la lingua araba, si preferisce nella traduzione italiana dare alla parola il genere maschile: da questo punto di vista pertanto è più corretto dire il jihad e non la jihad.