Il film ‘Women of Hezbollah’consente di riempire di significato
pratico il termine Jihad[1].
Il documentario è stato girato nel 2000
dal libanese Maher Abi Samra. Il regista torna nel quartiere della sua
giovinezza, Ramel el Ali, un sobborgo meridionale della città di Beirut, dove ha
vissuto le contingenze drammatiche della Guerra Civile Libanese (1975-1990),
ovvero la povertà, le precarie condizioni di vita, il desiderio di riscatto,
presupposti dell’ascesa politica di
Hezbollah, il partito islamico di Dio, composto prevalentemente da integralisti
islamici sciiti. Il film ha come protagoniste due attiviste, Zeinab e Khadjie;
il regista, attraverso le loro testimonianze, rese attraverso la tecnica rievocativa
dell’intervista, compie una ricognizione delle motivazioni e degli aspetti personali,
sociali e politici della militanza islamica. Le due donne rivivono dal loro
punto di vista gli eventi che hanno caratterizzato la guerra civile in Libano e
l’ascesa del partito islamico di Dio, espressione di jihad. Colpisce la fede di
Zeinab, disposta con fierezza a perdere il marito nel caso si immolasse per
l’Islam in un’azione suicida. Con analoga agghiacciante freddezza, Zeinab non
solo accetta ma incoraggia i propri figli a farsi anch’essi martiri. Da alcune sequenze che si alternano
agli stralci delle interviste si evidenzia anche come i giovani libanesi
vengano educati fin da piccoli all’odio nei confronti di Israele e
dell’occidente. Khadjie, meno giovane di Zeinab, cresciuta nel sud del Libano,
dominato dagli sciiti, dice che quando era giovane era a conoscenza
dell’esistenza di due sole realtà religiose: quella musulmana e quella ebraica. La comunità ebraica le veniva
descritta in maniera oscura e terrificante. Quando piangeva, sua madre le
diceva: "Stai attento, gli ebrei stanno venendo ad attaccarci!" Dopo
un matrimonio imposto e fallito dal quale ebbe sei figli, Khadjie trovò una
motivazione esistenziale nella passione per l’impegno politico. Khadjie fu la
prima donna imprigionata dagli israeliani, e divenne rapidamente un simbolo
della resistenza. Attraverso il vissuto delle due donne e gli stralci tratti
dalla vita reale il film mostra cosa significhi in concreto essere jihad. La condotta ed i sentimenti delle due
donne indicano che essere strumento di jihad presuppone una disponibilità ad
annullare se stessi ed una piena accettazione del sacrificio di quanto si ha di più caro per la
difesa o l’affermazione dell’Islam. A prescindere dalle sottili disquisizioni
interpretative, la cieca fede per l’affermazione dell’Islam che anima parte dei
fedeli musulmani e che prescrive
iniziative che qualsiasi sia il loro contenuto si impongono su altre opzioni di
vita, è il jihad. Il film inoltre fornisce il modello femminile della militanza
islamica. Viene in mente l’affermazione
di Khomeini circa l’apporto decisivo delle donne per l’affermazione della
rivoluzione iraniana. ROBERTO RAPACCINI
[1] Per analogia con la lingua araba, si preferisce nella traduzione
italiana dare alla parola il genere maschile: da questo punto di vista pertanto
è più corretto dire il jihad e non la jihad.