giovedì 3 gennaio 2013

33. CINEMA E TERRORISMO, PARADISE NOW




 Il film Paradise Now (2005) è la narrazione delle vicende e la descrizione del dramma umano di un terrorista palestinese di Nablus che sceglie di compiere una missione suicida a Tel Aviv. L’opera cinematografica descrive senza retorica attraverso tutte le fasi che portano alla realizzazione di questa scelta il punto di vista di uno shaid, uno di quei martiri suicidi impropriamente definiti in Occidente kamikaze. Questa scelta non solo lo costringe a rinunciare ad un nascente e dolce amore, ma lo sottrae anche all’affetto della sua famiglia; il suo atto ha anche il senso di un  riscatto per la condotta del padre, accusato di collaborazionismo con gli israeliani. Il regista palestinese Hany Abu-Assad rievoca le ultime drammatiche 48 ore del kamikaze Said e dell’amico Khaled che condividerà con lui la medesima sorte; i due giorni saranno impegnati  dai riti di preparazione fisica e spirituale per il passaggio ad un’altra vita, dalla predisposizione della foto da guerriero che verrà poi affissa in città, dall'elaborazione del video per i fedeli e i familiari. Uno dei pregi del film è l’assenza di retorica e la rinuncia  a giudizi morali. La narrazione, per la sua asetticità, acquista una maggiore tensione drammatica. Il film ha ricevuto critiche soprattutto in Israele, perché tenderebbe ad umanizzare il criminale fenomeno del terrorismo suicida. In proposito, il regista ha affermato che lo scopo del film è suscitare una discussione, stimolare la riflessione, precisando che in nessun modo nella proiezione  viene giustificato il sacrificio umano. L’opera ha un grande valore anche dal punto di vista artistico ed ha avuto un grande successo internazionale, ricevendo anche una nomination per l’Oscar come miglior film straniero. Il film inizia mostrando che Said e Khaled appartengono ad una cellula terroristica. La loro esistenza mediocremente normale viene ‘nobilitata’ dall’essere scelti per la realizzazione di un’azione suicida. Amici fin dall’infanzia, nel loro immaginario si era consolidato il sogno di morire insieme come martiri. Con uno struggente senso di malinconia condividiamo il distacco dagli affetti e le fasi preparatorie dell’attentato, fino al loro trasporto sul posto, seguito da alcuni eventi che ne complicano l’esecuzione. Il film è stato girato interamente a Nablus, Nazareth e Tel Aviv nel 2004, e la troupe e gli attori si sono trovati spesso proprio nel mezzo della violenza dell'Intifada.  Il film, girato in condizioni di grave rischio, smentisce la nozione occidentale che gli attentatori suicidi siano privi di emozioni e rimpianti, e programmati per uccidere freddamente. Al contrario Khaled e Said sono combattuti da opposti sentimenti, l’estremismo religioso, il nazionalismo, la voglia di vivere. Indipendentemente dal proprio giudizio sulla questione palestinese, il film è un assoluto must-see, che ci fa riflettere su un’arma del terrorismo di matrice islamica di grande efficacia nel diffondere terrore in virtù della sua imprevedibilità e della difficoltà a contrastarne gli effetti, ovvero l’impiego di individui imbottiti di esplosivo che si fanno detonare presso un obiettivo sensibile causando gravi danni alla comunità civile. È problematico il rapporto fra il sacrificio della vita in nome dell’Islam e i privilegi in Paradiso garantiti da Allah. Il Corano considera la vita sempre sacra e inviolabile e quindi in linea di massima non è lecita nessuna forma di suicidio . Tuttavia il Testo Sacro dell’Islam obbliga i fedeli al dovere di difendere, anche a costo della vita, le terre dell’Islam dall’attacco di infedeli o liberarle dalla loro presenza.ROBERTO RAPACCINI