Il film Paradise Now (2005) è la narrazione delle vicende e la
descrizione del dramma umano di un terrorista palestinese di Nablus che sceglie
di compiere una missione suicida a Tel Aviv. L’opera cinematografica descrive
senza retorica attraverso tutte le fasi che portano alla realizzazione di
questa scelta il punto di vista di uno shaid, uno di quei martiri
suicidi impropriamente definiti in Occidente kamikaze. Questa scelta non
solo lo costringe a rinunciare ad un nascente e dolce amore, ma lo sottrae anche
all’affetto della sua famiglia; il suo atto ha anche il senso di un riscatto per la condotta del padre, accusato
di collaborazionismo con gli israeliani. Il regista palestinese Hany Abu-Assad rievoca
le ultime drammatiche 48 ore del kamikaze Said e dell’amico Khaled che
condividerà con lui la medesima sorte; i due giorni saranno impegnati dai riti di preparazione fisica e
spirituale per il passaggio ad un’altra vita, dalla predisposizione della foto da
guerriero che verrà poi affissa in città, dall'elaborazione del video per i fedeli e i familiari.
Uno dei pregi del film è l’assenza di retorica e la rinuncia a giudizi morali. La narrazione, per la sua
asetticità, acquista una maggiore tensione drammatica. Il film ha ricevuto
critiche soprattutto in Israele, perché tenderebbe ad umanizzare il criminale fenomeno
del terrorismo suicida. In proposito, il regista ha affermato che lo scopo del
film è suscitare una discussione, stimolare la riflessione, precisando che in
nessun modo nella proiezione viene
giustificato il sacrificio umano. L’opera ha un grande valore anche dal punto
di vista artistico ed ha avuto un grande successo internazionale, ricevendo
anche una nomination per l’Oscar come miglior film straniero. Il film inizia
mostrando che Said e Khaled appartengono ad una cellula terroristica. La loro
esistenza mediocremente normale viene ‘nobilitata’ dall’essere scelti per la
realizzazione di un’azione suicida. Amici fin dall’infanzia, nel loro
immaginario si era consolidato il sogno di morire insieme come martiri. Con uno
struggente senso di malinconia condividiamo il distacco dagli affetti e le fasi
preparatorie dell’attentato, fino al loro trasporto sul posto, seguito da
alcuni eventi che ne complicano l’esecuzione. Il film è stato girato
interamente a Nablus, Nazareth e Tel Aviv nel 2004, e la troupe e gli attori si
sono trovati spesso proprio nel mezzo della violenza dell'Intifada. Il film, girato in condizioni di grave
rischio, smentisce la nozione occidentale che gli attentatori suicidi siano
privi di emozioni e rimpianti, e programmati per uccidere freddamente. Al
contrario Khaled e Said sono combattuti da opposti sentimenti, l’estremismo
religioso, il nazionalismo, la voglia di vivere. Indipendentemente dal proprio
giudizio sulla questione palestinese, il film è un assoluto must-see, che
ci fa riflettere su un’arma del terrorismo di matrice islamica di grande
efficacia nel diffondere terrore in virtù della sua imprevedibilità e della
difficoltà a contrastarne gli effetti, ovvero l’impiego di individui imbottiti
di esplosivo che si fanno detonare presso un obiettivo sensibile causando gravi
danni alla comunità civile. È problematico il rapporto fra il sacrificio della
vita in nome dell’Islam e i privilegi in Paradiso garantiti da Allah. Il Corano
considera la vita sempre sacra e inviolabile e quindi in linea di massima non è
lecita nessuna forma di suicidio . Tuttavia il Testo Sacro dell’Islam obbliga i fedeli al dovere di
difendere, anche a costo della vita, le terre dell’Islam dall’attacco di
infedeli o liberarle dalla loro presenza.ROBERTO RAPACCINI