Recenti fatti hanno reso
di nuovo attuale la questione dell’uso nei Paesi occidentali da parte delle
donne musulmane del loro abbigliamento tipico, genericamente indicato con
l’espressione velo islamico. Infatti, in una riunione dei primi di luglio
la Federazione Internazionale Calcistica (FIFA) ha stabilito che le calciatrici
fedeli dell’Islam potranno usare in campo, in quanto simbolo culturale, il loro
tradizionale velo o foulard, vietato
in passato in quanto estraneo alla tipica uniforme calcistica. Inoltre con il
Ramadan inizieranno in Egitto le
trasmissioni del canale televisivo
‘Maria tv’ (il nome del canale fa riferimento a Maria la copta, la moglie egiziana del profeta
Maometto), dedicato esclusivamente alle donne con il velo integrale; il
proprietario dell’emittente televisiva ha spiegato che l’idea è nata dalla constatazione della discriminazione di cui sono vittime le donne che indossano
il niqab. Da tempo in alcuni Paesi europei si è posta la questione della
compatibilità di tale abbigliamento con i rispettivi ordinamenti giuridici in quanto le alcune
tipologie di velo islamico travisano o possono travisare il volto non
rendendolo riconoscibile. Con il termine
burqa
si intendono due tipi di abbigliamento: il primo è un telo, che copre
l'intera testa permettendo alla donna di vedere solo attraverso un’apertura
all'altezza degli occhi. L’altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa
afghano, solitamente di colore blu, copre sia la testa sia il corpo; all'altezza
degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza
scoprire gli occhi della donna; è diffuso principalmente in Afghanistan. Lo chador è un indumento tradizionale
originario dell'Iran simile ad una mantella ed è un velo indossato dalle donne
quando devono comparire in pubblico; ricopre il capo e le spalle, ma lascia
scoperto il viso, tenuto chiuso sotto il mento ad incorniciare il volto; oltre
che in Iran è molto diffuso in Medio Oriente. Il tessuto può essere
chiaro o con fantasie stampate; tuttavia in Iran le autorità religiose consigliano che il velo sia scuro. Il niqab
è un tipo di velo che copre la figura della donna lasciando scoperti solo gli
occhi. Si compone in due parti: la prima è formata da un fazzoletto di stoffa
leggero che viene collocato al di sotto degli occhi a coprire naso e bocca,
legato al di sopra delle orecchie, mentre la seconda parte è formata da un
pezzo di stoffa molto più ampio del primo, che nasconde i capelli e buona parte
del busto; è molto usato dalle donne
saudite. È di colore nero. Esistono poi varianti locali, come il niqab yemenita, che differiscono di poco
dal modello ‘base’. L' hijab, diffuso soprattutto in
Egitto, copre solo i capelli. Ognuna di queste tipologie di abbigliamento è
fortemente legata all'area di appartenenza geografica della donna e ne riflette
la cultura, oltre all'aspetto puramente religioso. Più in dettaglio l'obbligo
di indossare le specifiche tipologie di velo appare conseguenza di tradizioni
locali, indipendenti dalle prescrizioni religiose dell'Islam; le norme
coraniche sembrano prescrivere semplicemente un generico obbligo di indossare
il velo, soprattutto in occasione della preghiera rituale, senza specificazioni
ulteriori. Storicamente, l’hijab non
ha mai rappresentato un dogma nell'islam, un’obbligazione giuridica o un
simbolo religioso. Il velo assume oggi il significato di una rivendicazione di un'identità
culturale. Chi lo indossa, soprattutto in occidente, lo fa per coercizione, per
condizionamento, per rivendicazione o per libera scelta. Sembra l’esito di
conflitti culturali irrisolti: il conflitto fra islam e occidente, il conflitto
dell'islam con se stesso, il conflitto fra diritto e cultura. Il problema della
compatibilità di questo abbigliamento con gli usi occidentali non è di natura
estetica, ma si tratta di una questione giuridica, in quanto il travisamento
che risulta dall'uso di questo abbigliamento, può essere contrario all'ordine
pubblico, in quanto, oltre ad impedire la riconoscibilità della persona, può
costituire uno strumento per l'occultamento di materiale esplodente, armi o, in
ogni caso, oggetti o sostanze non consentiti. In proposito, per quanto riguarda
la legislazione italiana l'art. 2 della Legge 8/8/1977 così recita: “L’art. 5
della legge 22 maggio 1975, n. 152, è sostituito dal seguente: è vietato l’uso
di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il
riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza
giustificato motivo. E' in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di
manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne
quelle di carattere sportivo che tale uso comportino”. Pertanto, il travisamento può essere
consentito solo per giustificati motivi. Ad esempio, il casco per i
motociclisti o le protezioni per determinate attività pericolose sono fuori
dalla portata dell'applicazione delle norme in quanto finalizzate al prevalente
interesse della salute. In concreto, ci
si chiede se la matrice religiosa o culturale possa costituire un giustificato
motivo, ovvero, se sia prevalente l'interesse individuale al rispetto delle
manifestazioni esteriori del proprio credo religioso o di tradizioni culturali
sulle esigenze di sicurezza e di ordine pubblico della collettività. Nel Parlamento
italiano è in atto un dibattito molto vivace sulla possibile introduzione del divieto di indossare in pubblico
veli integrali, equiparandoli agli altri strumenti di travisamento; è stato
proposto inoltre di introdurre nel Codice Penale il reato di costrizione
all’occultamento del volto nel caso in cui il velo integrale non sia una libera
scelta della donna. La materia è già disciplinata dalla legge in Francia e Belgio. in Francia in
particolare è stata votata una legge che proibisce di indossare segni religiosi
nelle scuole pubbliche. La norma è stata criticata in quanto è ispirata da un
principio di libertà che si traduce in un rifiuto della libertà delle singole
persone. Il divieto non si limita al velo islamico ma riguarda anche le croci
cristiane di una certa dimensione, la kippah
ebraica, il turbante dei sikh e,
secondo il ministro dell´istruzione, Luc Ferry, una certa pelosità, ovvero la barba lasciata crescere secondo
alcune prescrizioni del diritto musulmano. E' evidente che la questione non va
risolta in base a mere valutazioni di ordine tecnico-giuridico, ma
deve essere valutata nel più ampio contesto dei complessi rapporti fra Islam e
Occidente. Roberto Rapaccini